Presto Google cesserà il proprio supporto ai cookie di terze parti, ovvero quelli che permettono di acquisire dati di navigazione ai fini di una più approfondita conoscenza dei gusti e bisogni dell’utente, seguendo la scelta di Apple, Mozilla e Microsoft verso una maggiore protezione della privacy a beneficio dell’utente.
Questo cambiamento, annunciato per il primo semestre del 2024, potrebbe ribaltare il modo in cui le aziende pensano ed elaborano i dati dei propri clienti. Basti pensare che, oggi, Chrome supporta più del 61% di tutto il traffico web in Europa (59% in Nord America, 68% in Italia).
L’ondata di digitalizzazione che ha investito le aziende negli ultimi anni, infatti, ha permesso il passaggio dal marketing di massa a quello di precisione, portando una maggiore efficacia degli investimenti marketing e media. Gli utenti navigano sempre di più il web, trascorrendo più dell’80% del proprio tempo online via mobile. Questi sono spesso alla ricerca di esperienze personalizzate, ormai così importanti per cui il 62% abbandonerebbe un marchio, qualora quest’ultimo non fosse in grado di offrire un’esperienza online personalizzata. Come gestire quindi una nuova modalità di profilazione degli utenti in un ambiente destinato a diventare “cookieless”? Il tema è affrontato nello studio Boston Consulting Group (Bcg) “It’s time to start your AI-led Data Driven Transformation”, che invoca una trasformazione necessaria e urgente per le aziende orientate a una profonda conoscenza dei consumatori di riferimento.
Una personalizzazione efficace avviene attualmente attraverso un monitoraggio costante del consumatore, da un lato attraverso i cookie per i siti web e dall’altro attraverso il mobile advertising identifier (Maid), l’identificativo univoco del dispositivo. La crescente attenzione verso la privacy degli utenti è tuttavia un tema sempre più importante per organizzazioni e istituzioni, e le limitazioni nel tracciamento dell’utente comporteranno una minore visibilità delle preferenze del cliente. Il nuovo orientamento determinerà quindi una minore capacità di personalizzare esperienza, comunicazione e prodotto, con una perdita stimata, per le imprese che hanno finora utilizzato tali strumenti, compresa tra l’1 e il 5% del fatturato, a parità di investimento.
“Il processo di profonda digitalizzazione che ha investito le aziende negli ultimi vent’anni – spiega Paola Scarpa, managing director and partner di Bcg, autrice del paper – ha permesso loro una maggiore visibilità sulle scelte e i bisogni dei consumatori. Questi, dal canto loro, hanno iniziato ad apprezzare sempre di più le esperienze personalizzate, a ricercarle e anche pretenderle al fine di ricevere comunicazioni, servizi, offerte sempre più adattati alle proprie esigenze”.
Secondo una ricerca globale condotta da Bcg, il 66% dei consumatori ritiene che la personalizzazione contribuisca alla fruizione di un’esperienza positiva durante l’interazione con i brand, con differenti livelli di ricettività dovuti all’età, educazione digitale e reddito. Eppure, nonostante il 64% dei consumatori si dica favorevole all’utilizzo dei propri dati da parte delle aziende, il 68% risulta infastidito dalla loro vendita.
La cosiddetta “privacy di default”, quindi, è in grado di proteggere le aziende dai rischi reputazionali e finanziari associati alle violazioni dei dati e all’uso non conforme. Si tratta di una scelta che può creare fiducia negli stakeholder, specialmente in un quadro normativo in continua evoluzione, nonché portare all’interno delle aziende la gestione dell’intera filiera del dato che, secondo Bcg, permetterà di recuperare dal 10 al 30% di efficienza degli investimenti.
“Le aziende, anche se appartenenti a settori differenti – sottolinea Paola Scarpa – sembrano ancora impreparate ai cambiamenti che stanno per arrivare, data la scarsa maturità tecnologica e i rischi connessi alla gestione del dato. Essere consci del divario tra le attuali capacità e le ambizioni, però, è un potente strumento per identificare le priorità e avviare un percorso di trasformazione. Il che non comporta esclusivamente lo sviluppo di un lavoro di raccolta e analisi dati. Sarà fondamentale la nascita di partnership tra i vari attori della filiera, ad esempio, per sfruttare le potenzialità del dato al massimo, bilanciando costi e valore generato”.
Per le aziende pronte a internalizzare la capacità di gestione dei dati di terze parti è quindi giunto il tempo di una trasformazione “data-driven”, che richieda la capacità di sfruttare il dato al massimo del suo potenziale. Sarà quindi importante definire la direzione in cui l’azienda si sta muovendo per concentrare tutti gli sforzi verso un unico obiettivo: cambiare la cultura di gestione del dato chiarendo come tutti possano contribuire a tal fine, promuovere il cambiamento attraverso una governance adeguata per riequilibrare le priorità e garantire che la trasformazione interna avvenga senza intoppi. Infine, utilizzare l’AI per potenziare gli sforzi tramite l’automazione e le pratiche di test & learn. Ciò si tradurrà nell’applicazione dei dati negli esercizi di ottimizzazione e nella loro raccolta in ogni fase, per costruire basi proprietarie sulle quali adattare le capacità dell’AI generativa e acquisire maggiore competitività.
Spetta ai leader scegliere la direzione del futuro e, se inquadrata correttamente in una strategia convincente, la perdita di visibilità di dati di terze parti non sarà necessariamente una minaccia, ma piuttosto l’opportunità per distinguersi dalla media e acquisire nuovi vantaggi competitivi.